di Paolo Bosso
Dall'inizio dell'anno le esportazioni agroalimentari italiane sono cresciute molto arrivando a 52 miliardi di euro di valore nei primi otto mesi, come evidenziano gli ultimi dati di Coldiretti. Livelli mai visti. Accade in un contesto di mercato tra i più anomali, con il costo molto alto delle spedizioni marittime, il difficile approvvigionamento delle materie prime e il congestionamento dei porti. «È una domanda che non ha precedenti e la Campania è tra le regioni con l'export agroalimentare che cresce di più in Italia», spiega Ermanno Giamberini, presidente di Confetra Campania.
A cosa si deve questo exploit?
«A una serie di fattori. L'aumento della domanda interna, spinto anche dagli enormi aiuti economici pubblici per i consumatori, con l'e-commerce che è esploso. E ora, con la mobilità sempre più libera, si mantiene ancora più alta. L'attività di esportazione dell'agroalimentare non si è mai fermata da quando è arrivata la pandemia. Durante quel periodo i ristoranti sono stati chiusi ed è crollata la domanda dei distributori, mentre è aumentata quella dei consumatori, cioè il cibo da cucinare a casa. Ora, con la riapertura dei ristoranti è ritornato il flusso del catering, per esempio, ma non è calato quello del consumo privato, due fattori che combinati insieme ti danno questa impennata delle esportazioni agroalimentari».
Tutto bene, quindi.
«Non proprio. I conservieri hanno difficoltà ad approvvigionarsi. I servizi marittimi sono in grossa difficoltà nella pianificazione. Gli Stati Uniti stanno vivendo un'alta congestione portuale, e stiamo parlando di uno dei principali mercati di esportazione per l'Italia. Come spedizionieri al momento rileviamo sicuramente scarsità di automezzi per il trasporto su strada ma sono i servizi marittimi il collo di bottiglia logistico ed economico, con i noli triplicati nei primi dieci mesi dell'anno. La capacità di stiva non è abbastanza e c'è overbooking. È un circolo vizioso: c'è un'alta domanda di spedizione, una bassa capacità di stiva e container vuoti difficili da trovare, in più le navi quando arrivano negli Stati Uniti si fermano anche per dieci giorni, con costi extra sulle soste, per il drammatico congestionamento dei porti e del sistema logistico statunitense».
Una situazione che rischia di rendere l'Italia del made in Italy poco competitiva?
«Sì. We pay more to get less. Paghiamo di più per avere meno servizi. I prodotti italiani stanno raggiungendo un livello di prezzo tale per cui i compratori si stanno guardando attorno, verso Paesi concorrenti che stanno cominciando ad avere prezzi competitivi per i consumatori americani. La leadership del made in Italy è storica e ci abbiamo messo decenni per conquistarla, basta molto meno per ridimensionarla».
Quanto agroalimentare produce l'Italia?
«Per citare solo l'olio, circa 300 mila tonnellate l'anno, su un fabbisogno complessivo tra domanda interna ed export di almeno 700 mila tonnellate. La passata importata, per esempio, come rilevano i conservieri di Anicav, viene perlopiù dalla California, prodotti stracontrollati, in linea con la rigida legislazione europea».
Una buona parte del made in Italy viene dall'estero, quindi.
«Bisogna sgombrare la mente da questa retorica. Il puro prodotto fatto e inscatolato sempre e solo in Italia non esiste, e questo vale per qualsiasi Paese che esporta. Senza l'importazione di determinati prodotti non potremmo esportare tutta questa roba. L'Italia, come tanti altri Paesi industrializzati, non può esaurire la totalità della domanda di import-export. È evidente che senza l'olio importato non saremmo competitivi nelle esportazioni del confezionato. Siamo buoni produttori e ottimi manifatturieri, e questo è un vanto. Il punto debole, in questo momento, sono le spedizioni marittime».
Cioè?
«Il rincaro notevole dei noli marittimi dall'inizio dell'anno. Nel dibattito mediatico nazionale è arrivato da circa un paio di mesi, concentrandosi però sulle importazioni, sulla penuria e il sovrapprezzo dei pezzi di ricambio e sul paradosso di dover arrestare la produzione malgrado le commesse. Si guardi, per esempio, al fermo del centro di Yara, che produce l'additivo Adblue, fondamentale per i mezzi pesanti. Sono tante le aziende italiane esposte al problema del ritardo nelle consegne dei componenti, costringendole a sospendere la produzione e tenere i dipendenti in cassa integrazione, non per mancanza di commesse ma di componenti. Sono cose che influiscono nelle esportazioni, sul prezzo finale dei prodotti a marchio made in Italy, che diventano così meno appetibili. Rischiamo di perdere una quota di produzione perché i trasportatori la cercheranno in luoghi più vicini alla destinazione finale. Già adesso, per alcune destinazioni, il costo del trasporto arriva al 70 per cento del costo del prodotto. Il mercato statunitense è il riferimento e ne risentirà sempre di più finché i noli marittimi si mantengono a questi livelli».
Gli analisti si aspettano che questa situazione di caro-noli, determinata dalla mancanza di spazi a bordo, sia transitoria, destinata a riequilibrarsi, così com'è stato nel 2008, quando all'opposto i costi di spedizione marittima raggiunsero livelli bassissimi per l'eccesso di stiva.
«Sono due estremi insostenibili. Allora molte imprese marittime sono andate vicine al default. Prima del Covid c'era l'oversupply, dopo il Covid l'overdemand. Forse per capire cosa sta accadendo andrebbe sommata la percentuale di sottoutilizzo della stiva precovid con l'overbooking attuale, così da capire l'incremento sostanziale del commercio. In questo modo sarebbe possibile capire se l'assenza di spazi sufficienti a bordo dei mercantili sia una situazione del tutto naturale o incoraggiata strumentalmente per mantenere alti i profitti. Il ricorso al blank sailing, che in periodo di emergenza Covid aveva l'obiettivo di evitare partenze di navi vuote a causa del lockdown, in questo periodo è solo conseguenza del problema dei porti congestionati o c'è dell'altro?».
Secondo lei?
«Se domanda e offerta si allineassero naturalmente, magari spinte dall'aumento dei prezzi, non dovrebbero esserci azioni speculative sull'offerta di stiva. Se ci fosse invece un meccanismo artificiale che modula l'offerta sulla domanda, lo squilibrio non finirà mai».
Le compagnie armatoriali sono imprese. La logica è quella del profitto prima del servizio pubblico, perché il profitto mantiene attiva l'impresa.
«Se le cose stanno così, che ci sia un libero mercato allora. Seguendo quello che dice da tempo la presidente di Fedespedi, Silvia Moretto, andrebbe abolito il block exemption regulation, che esime le alleanze armatoriali dalle regole antitrust, e andrebbe allineata l'aliquota fiscale degli armatori a quella degli altri trasportatori. Le compagnie marittime, come ha detto Moretto recentemente, pagano intorno al 7 per cento, noi spedizionieri il 27 per cento. Negli ultimi anni c'è stata la cosiddetta verticalizzazione dei servizi: gli armatori sono diventati anche spedizionieri, trasportatori ferroviari, società logistiche integrate, godendo di una fiscalità estremamente più vantaggiosa degli altri competitori. Se il mercato è libero, che sia libero, altrimenti allora sarebbe giusto introdurre incentivi agli esportatori virtuosi, ai trasportatori che movimentano più merce, così da controbilanciare l'alta capacità di manovra degli armatori».
La globalizzazione economica è strana. La distribuzione è mondiale ma la produzione è localizzata. In Asia, in Cina, a Taiwan. Un assetto fragile, esposto a crisi cicliche.
«Non essendo un territorio industriale sviluppato a tutti i livelli, come nel manifatturiero, questo è un tema avvertito maggiormente da altre economie e meno dall'Italia. La cosa certa che la pandemia ci ha messo sotto gli occhi è che le fonti di approvvigionamento devono cambiare. Il Covid ha mostrato la debolezza delle politiche economiche globali degli ultimi trent'anni, facilmente esposte al collasso. Per prevenire bisogna trovare equilibri differenti nella logica di approvvigionamento dei prodotti, altrimenti saremmo sempre esposti ai colli di bottiglia, al blocco di Suez, alla rimodulazione della produttività industriale di un singolo Paese come la Cina. Inoltre, per quanto riguarda la produttività, la digitalizzazione potrebbe aiutarci parecchio. Per esempio, temevamo lo smart working prima della pandemia. Il Covid ci ha costretto a testarlo e abbiamo capito che se organizzato bene, con un'infrastruttura informatica completa, migliora la produttività aziendale e la salute delle persone».