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22 marzo 2025, Aggiornato alle 08,22
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Logistica

Intelligente ma pigra. L'Italia dei porti rischia l'emarginazione

L'ultimo dato Eurostat fotografa una realtà discreta della portualità italiana. Ma le reazioni degli operatori si limitano a sterili rivendicazioni. In pochi sottolineano il rischio emarginazione di un "grande paese"


di Paolo Bosso 
 
L'ultima ricerca Eurostat sull'andamento dei porti europei è un perfetto ritratto dell'Europa non solo marittima, ma economica: il nord guida, il sud segue. 
Il report non è aggiornatissimo perché analizza il traffico 2012 dei principali porti dell'Europa a 28, ma in ogni caso è attendibile, si discosta leggermente dai dati diramati da alcune autorità portuali italiane, ma è sostanzialmente in linea soprattutto con la percezione comune.
Le reazioni degli operatori italiani però, con i loro comunicati-megafono, rischiano di confondere più che chiarire il significato di queste statistiche. Assoporti e Genova sono risentite del fatto che i loro porti si trovano in bassa classifica, dopo scali come Rotterdam, Anversa, Amburgo, Marsiglia, Bergen, Izmir, Immingham, Londra. «Non siamo emarginati» afferma il presidente dell'associazione dei porti Pasqualino Monti. «Dati clamorosamente sbagliati» chiosa il presidente del porto di Genova Luigi Merlo. Secondo Merlo, infatti, nel 2012 Genova ha fatto mezzo milione di container in più rispetto a quelli calcolati da Eurostat. Il che, se è vero, è un'ingiustizia bella e buona. Purtroppo però, andando a correggere il dato, la situazione non cambia: con due milioni di teu anziché un milione e mezzo, Genova passerebbe dal 13° al 12° posto.
E' Federagenti, invece, a mostrare la reazione più moderata, centrando forse la questione con maggiore accuratezza. Hanno ragione Merlo e Monti, sottolinea il presidente Michele Pappalardo, ma quei dati rigidamente statistici e massificati ci dicono anche «che l'Italia dei porti rischia davvero di affondare». Eccolo qui il nodo, che in termini più espliciti diventa il seguente: magari la fotografia Eurostat non è accurata (quale statistica lo è?). E' vero che fotografa «realtà non omogenee», ma è anche vero che presto gli unici due settori su cui vantiamo una certa leadership, transhipment e crociere, e su cui ci culliamo ormai da più di dieci anni, potremmo presto perderli, «se non si interverrà – spiega Pappalardo - in tempi rapidi». Dove? Prima di tutto sulla burocrazia, «ridimensionando ed annullando dove possibile soprattutto quei vincoli che impediscono alla naturale piattaforma logistica del  Mediterraneo di attirare quei traffici che solo per nostra colpa ci passano davanti senza fermarsi». 
Il nocciolo è tutto qui: il mercato si evolve e cambia, noi siamo fermi. L'ingiustizia non è nel fatto che Genova è 13° quando potrebbe essere 12°. Tutto sommato la nostra portualità viene subito dopo quella dei paesi che contano anche come potenza economica in sé. Piuttosto c'è un fenomeno da osservare, e che appunto la portualità italiana si limita soltanto ad osservare, senza muovere un dito. E' il fenomeno di un mercato marittimo locale (quello italiano) che rischia di scollarsi da quello internazionale. L'ultimo segnale è arrivato da Napoli con l'addio a maggio dell'unico servizio diretto per la Cina
Mentre l'elefantiaca burocrazia portuale italiana strozza la logistica, mentre tutti gli scali del nostro paese, indistintamente, hanno "grandi ambizioni" da "grande paese", il mercato globale marittimo va avanti strutturandosi sulla crisi endemica che ormai lo caratterizza, creando rotte sempre più grandi e consorziate. In questo scenario l'Italia non programma, non ha ambizioni, è tutta concentrata su sé stessa, indecisa se razionalizzare o no l'enorme numero di autorità portuali tutte uguali, impaziente nell'annunciare in pompa magna il prossimo sportello unico doganale, e impegnata a nominare il prossimo presidente dell'Autorità portuale, magari un altro medico. Nel frattempo, nel resto dell'Europa, i porti stanno cercando di capire come mantenere e programmare i grandi traffici sulle loro banchine.