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02 maggio 2025, Aggiornato alle 17,29
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L'oligarchia dello shipping. Battistello: "Meglio tanti pulcini che una sola gallina"

Armatori che diventano terminalisti, piattaforme informatiche chiave gestite da un solo operatore. Una volta il cluster marittimo era una nobile aristocrazia. Cos'è successo?

Battistello fuori il porto di Felixstowe nel 1992. Dietro, "Contship Germany", la prima nave mercantile dipinta di rosa

di Paolo Bosso

L'anaciclosi (dal greco anakýklōsis) è la teoria con cui Aristotele descrive i cicli politici che nascono, degenerano e poi ripartono da zero. La monarchia diventa tirannide, l'aristocrazia un'oligarchia, la democrazia un'oclocrazia (potere della moltitudine, del popolo, quella che ritroviamo nella retorica dei populisti/sovranisti e nel consenso irrazionale dei social). Se il mondo armatoriale fosse uno Stato sarebbe certamente governato da un'aristocrazia: un governo di nobili, di pochi ma buoni (áristos significa ‘il migliore'). Oggi somiglia sempre più a un'oligarchia, a un governo di pochi sui quali gli analisti si domandano quanto siano capaci. «Avere tante linee marittime più piccole, con più concorrenza, flessibilità, maggiore controllo, è preferibile ai quattro giganti di oggi». La presidente del gruppo Contship Italia, Cecilia Battistello, che stasera sarà protagonista a Genova della rassegna "Incontri in blu, uomini, donne e storie di mare", preferisce il mondo armatoriale in cui è cresciuta e non vede bene la piega che sta prendendo lo shipping. «Preferivo forse un po' più di casino, come a casa mia, dove anche se eravamo otto bambini piccoli si avevano più opportunità», racconta all'Ansa. Nata a Vicenza nel 1950, Battistello è stata la prima donna a presiedere, dal 1990 al 1994, una delle prime conferenze marittime moderne, tra Inghilterra, India, Pakistan e Bangladesh. Erano sempre lobby, ma erano di più. «Oggi - spiega - nessuno può permettersi il lusso di entrare in questa industria perché si parla di cifre che solamente i fondi hanno in mano e gestiscono. È un mondo diverso». Una delle poche donne manager del mondo marittimo italiano preferisce «tanti pulcini a una gallina: una volta che le hai tirato il collo per fare il brodo non ti resta più niente».

Armatore che fa il terminalista? Nel corto raggio va bene
Per Battistello «l'operatore della linea marittima non dovrebbe fare altro, quando armamento e terminalismo si contaminano ci sono conseguenze inevitabili che non sono piacevoli». C'è solo un'eccezione: il corto raggio, lo short sea shipping. «In quel caso è giusto che un armatore diventi terminalista per recuperare i costi, come stanno facendo alcuni operatori in Italia». Con le linee internazionali, quelle che navigano per migliaia di miglia e collegano continenti, il discorso cambia. «Nel resto del mondo deve essere una partita aperta», secondo Battistello. Lo shipping è stato sempre strutturato in delle specie di alleanze, le conference, dove gli armatori equilibravano offerta e domanda accordandosi sui noli. Erano comitati di oligopoli (l'armatore del grano, delle auto, del petrolio, dei container, etc.) che si coordinavano in un cartello, soggetti rappresentanti di singoli mercati che mantenevano chiuso ai nuovi concorrenti l'ecosistema dei mercati, programmando anno per anno le quote di trasporto marittimo. Dinamiche che non sono sparite ma richiedono sempre meno conference. L'attività d'impresa del trasporto marittimo oggi richiede capitali sempre più ingenti per essere profittevole. Sono entrati in gioco prima i gruppi bancari, poi i fondi di investimento, rendendo volatile e poco controllabile un capitale che prima era nelle mani delle sole compagnie marittime, comportando una drastica riduzione, per selezione naturale, della varietà degli operatori. La concorrenza è una serie di piccole portate, non un festival di banchetti luculliani. Oggi gli investimenti nello shipping devono essere ingenti e mirati per avviare nuove attività, diversificati e strategici quando la compagnia è già consolidata, una strategia che si è vista bene, per dirne due, nella navalmeccanica e nella classificazione/certificazione: Fincantieri oggi costuisce anche ponti; il Rina, il Bureau Veritas e il Lloyd's Register sviluppano l'ingegneria dei materiali. Con le turbolenze economiche dell'ultima decade - che per lo shipping hanno comportato un calo dei volumi di trasporto e un aumento dei costi di esercizio - molte compagnie marittime sono fallite, alcune con pesanti tonfi. Le restanti (in classifica: Maersk, Msc e Cma Cgm) già forti, si sono concentrate in gruppi più simili a multinazionali che ad armatori, che operano tanto nel trasporto marittimo che terrestre, integrando la catena logistica sempre di più e mettendo asset (le navi) e servizi (distribuzione della merce, digitalizzazione dei documenti) sullo stesso piano.

Anche col processo di digitalizzazione dello shipping si sta assistendo alla concentrazione delle piattaforme informatiche in pochi operatori. Nella crittografia doganale, ovvero la digitalizzazione dei documenti di carta, TradeLens, una piattaforma blockchain gestita da Maersk ed IBM, rappresenta al momento il futuro. È un fenomeno non molto diverso dall'ecosistema commerciale di internet dove due operatori (Google/Android e Facebook/Whatsapp/Instagram) offrono la quasi totalità dei servizi web.

Lo shipping è sempre più strutturato come un'oligarchia? La cosa certa è che un mondo armatoriale così concentrato è instabile, poco reattivo ai cambiamenti, non saprebbe improvvisare di fronte agli imprevisti. È un malato di programmazione. «Il problema è lo sviluppo - conclude Battistello -, il governo del cambiamento. In Europa si dibatte da anni sulla durata delle concessioni. A me sembra logico mantenere la politica delle lunghe concessioni, altrimenti noi terminalisti non potremmo investire. In Italia alcune gru che compriamo per i nostri terminal sono specifiche per quelle banchine e non possono essere riutilizzate in altri porti».

Tag: contship